La tazza di caffè

Un uomo appoggiato pigro alla sua tazza di caffè raffreddato sta seduto in un bar.

Picchietta le dita a tamburo sulla ceramica. Piccolo mantra sonoro nel quale prova sciogliere pensieri che come spine lo assillano.

Davanti a lui due bambini si sono divisi le gambe di papà come sedie ambite ad un concerto unico.

Si beccano e pizzicano come uccellini dispettosi, a turno spingono e poi aspettano di essere spinti.

L’uomo alza lo sguardo, cade nella scena senza possibilità di resistere. È con loro, immerso come nella scena migliore del miglior film.

Il papà li tiene con se in un abbraccio sicuro ma dolce, mentre continua quella piccola baraonda di risatine e piagnucolii mal recitati.

Non disturba mai, ne con un gesto, una parola, o uno sbuffo. Solo li tiene. Li guarda, senza volere ne dovere.

L’uomo ammaliato e perso segue le sagome dei tre fatti Uno da quella intimità magica ed ancestrale che l’amore tiene insieme.

Il papà si gira senza meta ed incontra lo sguardo dell’uomo solo con la tazza. Lo fissa ora con una empatia che lo sorprende ma non può più soffocare.

L’uomo sente lo sguardo, non capisce, esplora espressioni e pieghe del viso finché, riemerso da sé, sente le calde lacrime gli stanno attraversando la guancia.

Gocce intrise di di fotogrammi identici a quelli che stava mirando cadono dal mento sulla giacca stanca come una piccola cascata di montagna.

Le dita hanno smesso di titillare la tazza, e restano immobili e gelide come dei rami a dicembre.

Si alza restituendo al papà un sorriso pieno di nostalgia e rammarico per la consapevolezza che di quelle scene non sarà mai più attore, solo spettatore.

Esce ora dal bar, lento per ingoiare ancora qualcuno di quei gridolini bambini, come a cercare di riempire un sacco di scorta da usare nelle sere solitarie.

Il papà resta appeso ad una silenziosa lezione appresa nell’incontro con l’uomo: stai immerso in questo meraviglioso presente. Respiralo in ogni istante perché l’apnea è dolorosa.