Mani piccole e rotte dal freddo, arrotolano nastri colorati intorno a fogli di carta. Piccoli manoscritti di nuvole di pasticci tremolanti. Così insignificanti diresti eppure tanto preservati.
Tutto intorno è sistemato con una dignitosa geometria della disperazione:
scarpe rotte e stanche, con corde sporche e sfilacciate come lacci, appaiate in linea di righello una accanto all’altra, e poste con apparente delicatezza a fianco al letto
Il letto…una stuoia leggera ed inconsistente poggiata a terra, tirata per bene negli angoli giudiziosamente raddrizzati.
Un filo di tessuto per separare il corpo dal pavimento: trancio di piastrelle strenuamente difeso in una lotta fra disperati.
Ai piedi di questo, una borsa grassa e sfondata da un lato, dalla quale colano, come riga di vomito, oggetti di ogni tipo:
fascette da elettricista,
un lucchetto chiuso ma senza chiave,
una biro rossa,
un libretto di litanie orientali,
una spazzola avvizzita,
un bicchiere di carta tumefatto,
una piccola croce di legno,
un guanto.
Dall’altro lato del letto una vecchia scatola di piselli colma d’acqua, dove un cane pulcioso va a rabbonire la sete di tanto in tanto, raccogliendo ogni volta una fugace carezza.
Dentro tre maglioni uno sopra l’altro a combattere fieramente un gelo che annichilisce e fa male, un corpo si nasconde fieramente.
Un volto è affogato in una sciarpa spessa, avvolta come un abbraccio vigoroso intorno al collo insaccato.
Gli occhi sono curvi sulle mani impegnate a rassettare, come a sistemare una casa sempre troppo piena ed in dispordine.
Infine una vecchia abat-jour, con telo esagonale dai colori spenti dalla polvere a coprire una lampadina deceduta anni fa, compare dal ventre delle borsa.
Il corpo è in legno levigato, pieno di grafi e scalfiture come tante rughe di un viso.
Viene riposta vicino al letto, con estrema lentezza e attenzione. Posizionata con un movimento rispettoso in un punto preciso; come vi vosse un segno a terra che forse c’è.
Un gesto quasi mistico, si capisce, eseguito sera dopo sera come un rituale, un vespro. Un commiato al giorno faticoso e solitario appena passato. Uguale al precedente, ed a quello prima ancora.
Il corpo a uovo ora scivola dolorosamente sulla stuoia, e si infila in un magma denso di coperte in strati, nei quali prova a scomparire ancora di più.
Poi piano una mano esce ed impugna l’abat-jour a proteggere il prezioso amuleto. Retaggio, forse, di una vita passata in cui il caldo tepore di una vera casa era la normalità.
La scena si svolge nel tempo dei miei passi fugaci ma resta fissata nell’aria come un quadro in una galleria.
Quando questa sera spegnerò la mia abat-jour bianca, dal mio caldo letto dato per scontato, un pensiero, inutile strofa di una preghiera atea, sarà per questo quadro di città post-moderna.