Dove ti appoggi,
se sei acqua.
Dove risolvi,
se sei domanda.
Dove finisci,
se sei eternità.
Come la parola
resta,
tu resti.
La gomma strofina
ma non ti cancella.
Sei macchia informe
sul foglio.
Dove ti appoggi,
se sei acqua.
Dove risolvi,
se sei domanda.
Dove finisci,
se sei eternità.
Come la parola
resta,
tu resti.
La gomma strofina
ma non ti cancella.
Sei macchia informe
sul foglio.
Di una brama
non ti fidi.
Brulica
operosa
nelle budella.
Dipinge curve
tortuose
nel ventre.
Metti parole tutt’intorno,
ma è recinto
debole.
Vuole
cedere,
cadere,
soccombere.
È famelica,
ma ciò che ingoia,
sazia anche te.
Sono sconfinato,
non trovo l’inizio e la fine.
Una porta aperta,
una valle esposta,
un cielo sopra milioni di teste.
Esplorato,
scoperto,
espugnato.
Illimitato,
liberato,
perso.
Senza forma,
sformato,
deformato.
Sono un’opportunità,
un nota sul taccuino,
una lista troppo lunga da leggere.
Scoperchiato,
svelato,
sbandierato.
Divento il pugno chiuso,
l’isola senza lati,
l’albero piantato nella terra.
Urla di sirene fendono un’aria silenziosa, ammutolita
Cabine su ruote contengono respiri spezzati,
appesantiti, annichiliti.
Lacrime cadono a pioggia da un cielo triste come un cuore abbandonato
Distanze, crepe nella terra, si riempiono di parole non dette, abbracci rimandati.
La speranza è una candela accesa,
protetta da una mano tremolante
Una carezza promessa é svanita nella mano.
Una parola attesa e soffocata, muore nel silenzio
Come un suono sordo in una stanza piena di cianfrusaglie.
Così è il vuoto pieno della mancanza
Una moltitudine di tonde torri stanno pacificate l’una accanto all’altra, corrose da tempo e dalla devozione.
Corrose ma non vinte.
Su un fiume giallo hanno urlato motori di piccole barche in slalom fra vite appese a palafitte.
Città di legno dignitosamente marcilenta.
Pavimenti di terra rossa sostengono templi abbracciati da possenti radici.
Abbraccio della natura all’afflato mistico dell’Uomo.
Schiene piegate da cesti e cianfrusaglie hanno proferito incessantemente il mantra “one dolaar”.
Prezzo base della dignità e del rancio giornaliero.
Sorrisi sdentati appesi a visi spaccati mi hanno parlato, senza parole, di una vita che non ha aspettato.
Ma nemmeno si è negata.
Altri, solari ed ingenui, hanno giocato a nascondino con me per farsi
trovare;
vedere;
esistere;
almeno per oggi
Hai svuotato la mia bisaccia colma di sassi e sospiri, e l’hai riempita di leggero soffio.
Ti chiamerò, meravigliosa Cambogia, promesso!
Cose per cui vale la pena vivere:
– I visi dei miei figli quando sono nati
– il terzo movimento della quarta sinfonia di Brahms
– il formicolio alle gambe quando corro
– il suono che la chitarra fa uscire dalle mie mani
– il “piccolo” che mi accarezza la faccia e dice “papi bello”
– Footloose
– tutti i primi baci che ho dato nella mia vita, e quelli che darò
– sentire la “grande”cantare
– la Cavatina di Myers
– L’alba al mare, il tramonto in montagna
– le 4 persone che hanno cambiato per sempre la mia vita (fino ad ora)
– il mio lavoro quando non mi sembra lavorare
– io, che sorrido e non me ne accorgo
– la sonata in la maggiore per pianoforte di Paradisi
– parlare e camminare così tanto che non pensi più che stai camminando
– qualcuno che mi chiede “mandami un messaggio quando arrivi”.
Ti dirò di una perla che ho avuto fra le mani
Fatta di sentieri di roccia nera, lame di vulcano, bagnate al margine dal grande mare.
Di un sole pigro e ridente ingoiato dal blu , in un tempo sfilacciato come una maglietta lisa.
Di campi pennellati di nero, arancio e giallo, tavolozza di un artista eclettico e spericolato.
Di schiene piegate a spigolar capperi e staccare patelle, eucarestia rispettosa ed ancestrale.
Di uomini e donne accovacciati ad altezza vite, sciamani nero splendente come la terra che li ha generati.
Di una lunga strada che taglia montagne come grandi labbra, voluttuosamente attraversata…ancora ed ancora.
Ho avuto una perla nelle mani, e Pantelleria il mio cuore nelle sue.
Una mano è appoggiata tenera su di un miracolo. Lo scalda, lo ascolta, non lo vede ancora.
Il ventre si fa casa, tiepido rifugio in attesa dell’incontro.
Finché un corpo ora pronto si dilata, apre, separa,
per intrecciarsi poi di nuovo al primo abbraccio.
Labbra avide succhiano vita mentre altre baciano una fronte che si dà senza difese.
Braccia dolci e forti si fanno scudo e maestre, in una pazienza docile che ripete gesti come versi di una canzone.
Una voce da una finestra su un cortile chiama per un pranzo ormai freddo,
mentre gambe bambine rincorrono un pallone che non smette di rotolare.
Dita ansiose digitano su un telefono che risponde muto e desolato,
per poi rianimarsi ingenuo e brigante con le luci del mattino “mi cercavi per caso?”
Occhi fieri incoraggiano in un giorno importante,
e tutto l’amore dell’universo si chiude nel gesto di sistemare un colletto prima che esca.
Valigie sul ciglio della porta si portano via vestiti e frammenti di un cuore che non si ricomporrà mai più.
Un saluto cade lento dai primi capelli imbiancati e di nuovo due corpi si separano.
Su di una poltrona che ormai è casa una mano curvata dal tempo scorre pezzi di vita annegati in fotografie.
Sorride e attende che il telefono squilli.
“Pronto mamma?”
La canterò,
quella canzone che non so scrivere.
Uscirà dal mio terreno come un filo d’erba a primavera.
La fischierò finché le parole si adageranno sulla melodia,
senza permesso,
senza fatica.
Il dolore e la gioia l’avranno ispirata, innaffiata di storie e immagini.
La canterò,
e ascolterò la mia voce rompere gli specchi in cui sono riflesso.
Starò sotto il palco,
ad un soffio da me,
dove la mia canzone si sente meglio.